Oggi su Che libro mi porto ho deciso di ospitare un amico e collega, Alberto Caspani, un bravo giornalista nonchè instancabile viaggiatore, ma di quelli veri, di quelli che approfondiscono i luoghi che andranno ad esplorare e si mescolano alle persone che incontreranno lungo il cammino. Alberto poi è uno di quelli che quasi ti vergogni di incontrare in città dopo le vacanze, perchè al suo confronto le ferie che hai appena fatto tu assumeranno di colpo le sembianze della più sonnolenta villeggiatura d’antan.
Tu gli dici del mare, lui invece ti affascina con il racconto di un viaggio avventuroso, (spesso pure troppo, come testimonia la foto che qui lo ritrae in un fermo “preventivo” per invasione territoriale fra la Lituania e l’enclave russa di Kaliningrad…. Lui ti racconta di lande desolate, sciamani africani, burocrati russi, tribù nomadi).
Parte dei suoi lavori li potete trovare sui suoi siti, ma naturale che tali esperienze di vita vissuta non potevano non ispirare un racconto, anzi un romanzo, che parte da Amburgo e ci trasporta sul lago Bajkal, in Siberia, ma anche indietro nella Cina imperiale. Si chiama “Una volta ancora”, gasdotti e sciamani lungo la Transmongolica (pubblicato in self-publishing, lo potete trovare qui) e racconta di un giornalista in fuga dal suo passato che in cerca dello scoop della vita sfiderà oligarchi russi, sciamani e trafficanti orientali, ed il suo sarà anche un viaggio verso la consapevolezza interiore.
Così Alberto ci racconta le storie e i territori che gli hanno ispirato il libro e che, come vedrete, sono decisamente fuori dal comune… Buona lettura.
Una volta ancora
“Seguire i gasdotti della Russia può essere un buon modo per non smarrirsi nelle sue immensità. Conducono spesso là dove il passo è interdetto, portando a galla non solo gas e petrolio, ma anche storie sepolte di cui conviene dimenticarsi in fretta. Una di queste riguarda Michail Borisovic Chodorovskij, l’ex magnate del colosso petrolifero Yukos che, a mo’ di uno spettro redivivo, di tanto in tanto compare in televisione per ricordare quale triste fine sia comminata a chi non opera per il bene del Cremlino, bensì per le proprie tasche.
Eppure la Russia di una decina d’anni fa non era così, ancora in bilico fra le severe macerie dell’ex Unione Sovietica e un torbido futuro di umana cupidigia, dove ogni legge poteva essere infranta e qualunque rancore vomitato sul nemico. Una terra orgogliosa che osservava sconvolta il proprio disfacimento, senza intravvedere ancora la via della rinascita, esattamente come accade nei riti degli sciamani siberiani, quando battono l’ultimo colpo sul tamburo e improvvisamente crollano a terra.
Dev’essere stato uno di questi a martellarmi nelle orecchie per anni, spingendomi a tornare e ritornare fra le braccia della Grande Madre, interrogandola ossessionato quasi avessi di fronte la mitica Sfinge cantata da Aleksandr Block, piangendola nelle sue sventure, amandola come un figlio che non accetta di separarsi dal suo seno. Giovane e avventato, sono corso in sua difesa, convinto che la verità della penna potesse smuovere la coscienza dei più, aprire gli occhi sulle violenze che le foreste vergini della Buriatia pativano in silenzio, sulla bramosia capace di far accapponare le inviolate acque del lago Bajkal, sulla rassegnazione dei monaci d’Ivolginsk, impietriti al suono di un gong tornato ad annunciare il barbaro nemico oltre la grande muraglia d’Oriente. Ho pestato i piedi a Chodorovskij, camminato spalla a spalla con gli ex agenti del Kgb, sfiorato scapole di capra che solo al fuoco sacro appartenevano, deragliando fra orde di mongoli per essere poi venduto sulle spregiudicate bancarelle di Pechino.
Non ho semplicemente viaggiato nella Russia incantata di Leskov, ma per quell’immensa distesa a est del cuore dove seppelliamo i nostri perché, nella speranza che mai più tornino e ci lascino infine gustare il piacere sottile del vuoto irrisolto. Chodorovskij marcisce ancora in qualche oscuro meandro di una repubblica dimenticata. La Russia è tornata a scrutarci dalle polveri della sua storia; e nonostante “Una volta ancora” volesse colmare una distanza aperta da una confessione mai data alla stampa, scompigliando le carte per confondere le tracce, il sapore del primo bacio abita ancora le nostre labbra”.
Alberto Caspani